martedì 3 aprile 2012

Presentazione "Il Giallo e l'Azzurro". Relazione di Giovanni Denaro


Su Il giallo e l’azzurro di Gaetano Celestre
e altro ancora.
l’attualizzazione del mistero divino e l’esigenza di scrivere in Sicilia.

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Doveroso incipit, ancora una volta.
Come per la presentazione di Bagni Achei, primo romanzo di Gaetano  al quale ci stiamo adesso inevitabilmente riallacciando, anche per la presentazione relativa a Il Giallo e l’Azzurro  sono stato alla ricerca di un prologo significativo, di un antefatto che mi fornisse lo spunto per iniziare a pensare e a scrivere di esso.
Ed il pensiero si è arenato su una circostanza o, per meglio dire, su di un’immagine: Gaetano ed io che, in una delle mie solite trasferte a Scicli, in una fredda giornata di Gennaio scaliamo il colle S. Matteo per arrivare fino alla parte più alta e, da lì, letteralmente, dominiamo con lo sguardo l’intera Scicli. Il vento ci coglie alle spalle mentre tento di cercare, nell’immenso mare che mi si staglia davanti, i blu che il maestro Guccione prende in prestito per i suoi dipinti. Ecco, da qui partiamo e qui ritorneremo, in un modo o nell’altro.


De “Il Giallo e l’Azzurro.”  introduzione ai temi
Il Giallo e l’Azzurro. Secondo romanzo di Gaetano Celestre, pensatore e scrittore sciclitano che, a circa due anni di distanza dall’esordio con lo scomodo e profondo Bagni Achei, ritorna su suoi passi di ottimo narratore consolidando, questa volta con un giallo, la sua personalità e il suo pensiero.
Siamo ancora una volta in Sicilia, in un’estate torrida come solo dalle nostre parti può essere. Piero Menardo, aspirante investigatore privato,  seduto nel suo nuovo ufficio da detective, aspetta , rigorosamente in giacca e cravatta, che qualche cliente bussi alla sua porta e dia un senso a quella che non può non apparire come una scelta lavorativa quantomeno bizzarra. Il giovanotto è affiancato, in questa nuova avventura, dall’amico e già compagno di liceo Carmelo Passatempo. L’empasse lavorativo, in cui inevitabilmente può incappare uno studio investigativo che apra i battenti in un piccolo paesino di provincia, sembra essere improvvisamente interrotto dalla misteriosa sparizione di alcuni gatti cui seguirà, qualche giorno dopo, un ben più rilevante fatto di cronaca nera, l’omicidio di tale Salvatore Lestrigone, conduttore di un locale programma di intrattenimento televisivo.
Quasi in parallelo, o forse quasi in disparte, sicuramente in sordina e con toni più ermetici e  di certo più carichi di simbologia rispetto alla storia principale, si sviluppa, in seno al romanzo, una sorta di mini rappresentazione, in forma comica e surreale, di un incontro tra due soggetti non meglio identificati. Due personaggi che si incontrano per caso, in strada, e che vengono descritti in maniera essenziale, addirittura di uno tacendosi anche il nome, indicandolo come quello con voce grossa e grassa, l’altro invece individuandolo come tale Giorgino Cola. Gli sparuti capitoli ad essi dedicati, disseminati quasi senza criterio tra quelli relativi al filone principale del romanzo, aprono una finestra secondaria sull’immaginario del lettore, un canale di dialoghi surreali ed immagini ai limiti del grottesco  che ampliano il tono e lo spirito del romanzo. Se da una parte si procede quasi con regolarità e prevedibilità nell’iter di indagini e accadimenti che caratterizzano lo sviluppo dei misteri indicati sopra, il binario parallelo che si apre a latere del giallo arricchisce l’opera tutta di significati ancora più curiosi.
Come per il già citato Bagni Achei, che l’autore stesso si diverte a citare più volte nel corso del racconto, anche in questo caso la narrazione costituisce il mezzo e non il fine, questa volta per arrivare non già alla posizione di domande ma finalmente per stringere tra le mani una risposta. O più risposte, se vogliamo.






Del “problema del lavoro” e di finestre sempre aperte.
Procediamo con ordine, essendo molteplici i temi da trattare. Questi verranno snocciolati quasi con effetto domino, essendo ciascuno irrimediabilmente legato a quello successivo secondo un’unica catena di parole. La prima rappresentazione che ci deriva dalle pagine del romanzo è quella relativa alla figura del giovane siciliano tipico. Tanto il protagonista Piero Menardo, quanto il Giorgio Cola che alberga in quelle pagine misteriose che sono queste parentesi di apparente non sense, vengono dipinti come ex liceali in cerca di lavoro.
Ecco la presentazione di Giorgino Cola: “ il Cola è l’ennesimo sfaccendato di questa storia. Ma solo nell’animo, perché purtroppo- almeno a suo modo di vedere- almeno lavorava.” Ma qui siamo in presenza di una contraddizione! Così si può giustamente asserire ad una prima lettura; ed effettivamente la circostanza potrebbe apparire tale a colui il quale non ha occhi per vedere al di là dei campi di grano: che cos’è il lavoro? “U travagghiu”, così meglio identificato, viene introdotto all’interno del racconto dall’autore diventandone gradatamente elemento portante,  inteso come strumento di coercizione delle esistenze umane le quali vengono oltremodo allontanate dalla bellezza di esistere per seguire la falsa promessa del benessere.
Ed è sintomatico che tutti i personaggi presentati dall’autore vengano subito individuati con nomi bizzarri, che alludono alle proprie abitudini di vita- si pensi a Carmelo Passatempo, e descritti anzitutto nella loro posizione lavorativa. Ciò che l’autore vuole dirci è che oggi ci troviamo a pagare il prezzo di un meccanismo sociale più grande di noi  che controlla il nostro umore in cambio del nostro tempo. E questa è una sofferenza tipica, direi quasi esclusiva di noi siciliani e di chiunque abbia la piacevole abitudine di perdersi, lungo minuti che nell’ordine dell’infinito appaiono secoli, affacciato da finestre irreali che ci riportano alla Bellezza della nostra terra. Ecco spiegato il malessere di Cola che sembra quasi vergognarsi della sua occupazione. E a proposito di finestre irreali, scrive Tabucchi nel suo romanzo epistolare, Si sta facendo sempre più tardi: “Le finestre a volte non hanno imposte,  si aprono su orizzonti ben più larghi di quelli reali.” Così, nel tentativo di cogliere la bellezza dietro ogni anfratto, nel quotidiano soffiare del vento di scirocco sulle spiagge di Sampieri e di Cava d’Aliga, si apre una visione della realtà ampia ed inspiegabile. Ecco l’autore così arrivare al tema cardine del romanzo, introdotto surrettiziamente, secondo quel gioco dei temi che si rincorrono cui accennavo sopra: cos’è che sfugge all’occhio? Cosa spiega l’accidente? Cosa ci governa? Siamo effettivamente guidati da qualcosa? C’è una realtà che non cogliamo ma che sperimentiamo ogni giorno e che giustifichiamo come evento casuale. Significativo è a tal proposito questo estratto da “Se in una notte d’inverno un viaggiatore” di Italo Calvino che bene rende l’idea di questa percezione dei sensi:
“Ci sono giorni in cui ogni cosa che vedo mi sembra carica di significati:
messaggi che non sarebbe difficile comunicare ad altri, tradurre in parole
ma che appunto perciò mi si presentano come decisivi.

Ridere dell’assurdo: l’autore e il suo rapporto con l’in(de)finito.
C’è un tono di confidenzialità che caratterizza il dialogo costante dell’autore con il lettore. C’è una sensazione di immobilismo, come se l’aria fosse densa, come se i ragionamenti del nostro giovane detective fossero inesorabilmente calati nell’umida calura estiva e non riuscissero ad emanciparsi. Ad esprimere questo concetto concorre ogni singola parola spesa. Chi racconta appare discreto ma non troppo, risulta presente ma mai invadente ed accompagna progressivamente il lettore lungo gli sviluppi relativi all’omicidio e alla scomparsa dei gatti, utilizzando  uno stile sempre ironico e pungente, a tratti esilarante, con toni goliardici e provocatori. L’opera, prima ancora che l’autore, chiarisce l’eventuale inganno: siamo qui per ridere! Per quanto la storia possa acquisire tratti anche drammatici, il rimedio ad ogni problema è offerto da una sana risata. Di fronte all’assurdo di un uomo trovato assassinato nella vasca da bagno trafitto da una spada di pescespada, di fronte a debordanti seni di signore un po’ attempate e di aspiranti detective che non scorgono neanche l’ovvio, l’autore propone la soluzione più gioviale e al contempo meno dispendiosa. Abbiamo tra le mani una lettura funzionale a suscitare grasse risate in chi ama prendersi troppo sul serio e che soprattutto guarda alla vita come se fosse un affare serio, un problema da risolvere, un nodo da sbrogliare. Ma si tratta di un incastro incomprensibile, senza logica, rispetto al quale l’atteggiamento prevalente e forse più intelligente è per l’appunto quello di chi, preso atto del folle ed inesplicato contesto in cui ci troviamo a vivere, si rilassa cogliendo il bello dell’esistenza e sorridendo dell’imprevisto. Ancora scrive Tabucchi: “Come vanno le cose, e cosa le guida: un niente.”
Fermiamoci un attimo e rilassiamoci. Anche la descrizione della stagione estiva e del caldo umido concorrono a delineare un senso di rassegnata meditazione sull’ormai acquisita consapevolezza del mondo e del suo ciclico divenire: la stagione estiva diventa simbolo di stasi e le nuvole che si acquattano sull’orizzonte, quando il sole tramonta nei caldi pomeriggi agostani, addormentano il nostro corpo in questa sana consapevolezza.
Eugenio Montale ha dedicato tutta la sua poetica a questa sensazione di indefinibile inquietudine.   

Il “circo dell’Umanità”.
Ancora, il tema del popolo visto come immensa giostra delle debolezze e delle nefandezze umane. La prosecuzione delle indagini da una parte, condotte dal Menardo ed affidate più al caso che non ai suoi meriti,  e il siparietto surreale dall’altro, con Giorgio Cola e il suo interlocutore, costituiscono il pretesto, per l’autore, per concentrarsi su di una variopinta descrizione della sicilianità  popolana.
Ne derivano quadretti di vita quotidiana vissuta dietro finestre semichiuse o, viceversa, di vita consumata per strada, arsa dal sole e che si insinua tra vicoli e ponticelli, una grande parata di personaggi “umani” descritti con tocchi da commedia all’italiana, tutti inseriti in questo grande calderone che sembra ricordare tanto certe descrizioni in musica fatte da Bob Dylan nel lungo, surreale , epico affresco urbano di Desolation Row. Ecco presentarsi il grande circo dell’umanità, condensato in un piccolo paesino di provincia, tutto trafelato perché alle prese col programma televisivo del sabato sera, col pettegolezzo del vicino di casa omosessuale, con la puntualità di certe soap opera e di certi spot pubblicitari, tutti impegnati nella morbosa descrizione dell’omicidio del mese, tutti indifferentemente affaccendati in un’ipocrisia apparentemente inguaribile che ci vede tutti moralisti, perbenisti e sicuri del giusto delle nostre azioni. E l’autore, Gaetano Celestre, prendendosi la briga di descrivere cotanta insistenza e vanità dell’azione umana, rinuncia all’assurdo sforzo di capire l’inesplicabile e si affida pertanto al dato della vita condensato nella contemplazione della bellezza che si vede ( il giallo e l’azzurro), nella descrizione dell’incomprensibile che si coglie oltre ( Dio, o chi per lui), nella consapevolezza acquisita che il mondo è vivo perché sfugge ad ogni logica, ad ogni dinamica. Il caso ci governa. Ancora una volta, però, come già per il precedente Bagni Achei, la consapevolezza diventa onere. Significa farsi carico di cose incomunicabili le quali albergano solo in chi sa cogliere, oltre il giallo e l’azzurro, l’inconcepibile della ragione; costui si trova a stretto contatto, ed in ciò sta l’incomunicabilità, con una società fatta di stereotipi e luoghi comuni che altro non sono se non la comoda casa cui ogni sera fanno frettoloso e nervoso rientro i bisognosi di verità accomodanti e di moralità da sfoggiare. Ecco l’approdo cui arriviamo. 
La realtà si manifesta quasi a nostra insaputa: mentre Giorgio Cola si intrattiene col suo interlocutore, il vero della vita si manifesta sopra le loro teste, con volatili pronti a dire la loro, lungo la stradina al loro fianco dove si scorge addirittura un gatto senza stivali,  su di un muretto a secco in un caldo pomeriggio estivo, il tutto descritto attraverso i toni dell’irrazionalità. Siamo dalle parti di Lewis Carroll e di Alice nel paese delle meraviglie.  I due personaggi, Giorgio Cola e il suo misterioso interlocutore,  si scambiano in parole le loro esperienze mentre tutt’intorno la realtà si manifesta. “La vita è quello che ti succede mentre sei impegnato a fare altri progetti”, scrisse John Lennon. E mai frase risulta più appropriata. Attraverso la Letteratura, l’autore trasfigura la realtà individuandola necessariamente in qualcosa a noi esterno ma cui comunque apparteniamo secondo una logica-non-logica che sconosciamo ma che deve comunque vederci partecipi, prendendo la vita in maniera elastica, come indica lo stesso autore, quasi a voler evitare equivoci sulle giuste modalità di abbraccio a questa esistenza. E a sostegno di quanto scritto dall’autore, riporto adesso un piccolo brano, estrapolato dal mini saggio Setacciare le ceneri dello scrittore statunitense Jonathan Franzen, che dà maggiore significato a quanto detto finora:
“La morte è una rottura del legame fra l’io e il mondo, e dato che l’io non può immaginare di non esistere, forse ciò che rende davvero spaventosa la prospettiva di morire non è la scomparsa della coscienza ma la scomparsa del mondo. (…) E il potenziale di morte insito nelle sigarette era confortante, perché mi permetteva, in pratica, di acquistare familiarità con l’apocalisse, di conoscere i contorni di quel terrore, di rendere la potenziale morte del mondo meno strana e quindi un po’meno minacciosa. Il tempo si ferma per la durata di una sigaretta: quando fumi, sei acutamente presente a te stesso; esci dallo scorrere affrettato e inconscio della vita. Ecco perché ai condannati a morte viene concessa l’ultima sigaretta, ecco perché (o almeno così si narra) mentre il Titanic affondava, i signori in abito da sera si affacciavano al parapetto con la sigaretta in bocca: è molto facile lasciare il mondo se sei sicuro di esserci stato. Come scrive Goethe nel Faust:
« abbiamo il dovere di essere presenti anche solo per un istante.»

Il dubbio come certezza.
Eccoci così giunti alla fine di quest’esperienza.
Piero Menardo riuscirà a trovare la soluzione al mistero dei gatti scomparsi e alla morte di Lestrigone per puro caso, quasi senza rendersene conto.
Le spiegazioni appariranno come scoperte casuali e nell’incastro tra romanzi, questo e il precedente Bagni Achei, verranno fornite soluzioni sia al primo, romanzo dalle domande insolute, che a questo secondo scritto. L’autore scrive un proclama di vera e propria rinuncia al pregiudizio e al giudizio affidandosi, nelle sue esperienze di contatto con la realtà, al corso dell’esistenza quale unico metro per valutare, ex post, la giustezza di ciò che in origine si ritiene o giusto o corretto. La vita è guidata dal caso, che equivale a dire che non è guidata per nulla, come l’improvvisazione guida la musica Jazz. Scrive ancora Tabucchi ne Il tempo invecchia in fretta: “Credo di aver capito una cosa, che le storie sono sempre più grandi di noi, ci capitarono e noi inconsapevolmente ne fummo protagonisti ma il vero protagonista della storia che abbiamo vissuto non siamo noi, è la storia che abbiamo vissuto.”
Calano i sipari dettati dalle parole preconfezionate. Nessun mito, nessuna ipocrisia. L’attualizzazione del mistero di Dio e dell’Esistenza tutta rappresenta lo spunto più importante che possa spingere uno scrittore a prendere la penna e sedere ad una scrivania. In Gaetano tale mistero si traduce nella quieta contemplazione del sublime, composto disordine della Natura.
Il Giallo e l’Azzurro, pag. 42:
“ Il sole in quel momento però si velò di sabbia e un caldo vento di deserto bruciò le gote dei due loquaci amici. Ecco come il giallo deserto siciliano si espandeva sugli Iblei. Un giallo di morte geopsichica.
L’arsura degli sterpi che gridano e talvolta sono mal compresi da chi con poca acutezza ritiene sia quella una visione quasi festante. Ma che stupidaggini dico? In effetti, cosa c’è di male nella morte se questa non è la fine? Passaggio ad altro, ciclico passaggio festoso, potrebbe essere qualcosa del genere.
Per non parlare del paesaggio. Quello sterminato mare di bionda sterpaglia che cerca l’azzurro mare per far felici gli occhi di qualunque mortale. L’azzurro di un mare che non ha interruzione all’orizzonte e continua con uguale tonalità nel cielo terso. Amalgama di colori a olio, questa è la vita. E in Sicilia si caratterizza per il giallo e l’azzurro. Una festa di rinnovamento, un contesto dove l’uomo ben poco interviene, immobile nel pensiero ma soprattutto nell’agire, infangato nel suo ipocrita conservatorismo reazionario.”

Proprio perché trattasi di un giallo non posso spingermi oltre nella descrizione degli accadimenti che nelle ultime pagine precipitano in un finale ricchissimo di interpretazioni.
Preciso solo questo. La Sicilia diventa, nella sua geografia così unica, il luogo in cui calare tutti i pezzi di questo racconto; qui e solo qui, dove bellezza e difficoltà si sposano così naturalmente, troviamo il luogo prediletto per codeste riflessioni sul vivere e sul non vivere, sul pensare e sull’agire. Qui la Bellezza ci tiene in ostaggio in ogni nostra azione o pensiero.


Ritorniamo al nostro incipit.
Con buona pace di tutti i preconcetti diffusi, coltivati strenuamente contro la Sicilia e il Mezzogiorno, non ultimo il fortissimo pensiero antimeridionalista del recentemente scomparso Giorgio Bocca, che in uno dei suoi ultimi interventi televisivi fece addirittura un pubblico incitamento all’Etna perché si ravvivasse e facesse ampio sfoggio della sua potenza distruttiva, “W l’Etna”,  colgo l’occasione per elogiare la nostra Terra di Sicilia cui risulta inevitabilmente dedicato il romanzo di Gaetano Celestre, perché la cultura possa trovare nella stessa un sempre costante motivo di ispirazione nonché terreno fertile per far attecchire ancora tanta altra letteratura a venire, e con ciò mi riallaccio all’introduzione di qualche pagina fa per chiudere il cerchio di questo discorso.


Giovanni Denaro, Modica.
Gennaio 2012. 


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